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17 marzo 2011

Il supporto della Sicilia iblea all’Unità d’Italia


Le attività fremettero anche in questa punta remota della costituenda “Italia”, un territorio comunque conosciuto dalla Real Casa di Borbone, sede dell’allora Contea di Modica − regnum in regno; un’istituzione che ebbe decorso dal 25 marzo 1296 e che cessò di esistere con l’abolizione della feudalità, ai sensi della legge dell’11 dicembre 1816, divenendo un Distretto con sette Circondari, della Provincia di Siracusa.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/33/Gustave-Le-Gray_Giuseppe-Garibaldi_Palermo-1860_1-1000x1500.jpg   Un’area questa dove già si verificarono delle rivolte antiborboniche, a seguito dei moti rivoluzionari avutisi nelle Due Sicilie, nell’arco dal 1820 al 1860 e principalmente legati al dictum “indipendenza e costituzione”, ma che non ebbero il risultato voluto per l'incapacità di attirare nella lotta rivoluzionaria le masse contadine, affrontandone l’annosa questione agraria. Fu soprattutto la rivolta di Siracusa del 1837, a far porre maggiore attenzione sul territorio ibleo da parte di Ferdinando II − che portò a un centinaio di esecuzioni sommarie compiute agli ordini del temuto ministro della Polizia Saverio Del Carretto, a causa degli scontri che si diffusero contro le truppe napoletane, per via dello sviluppo dell’epidemia di colera verificatasi in quel periodo, in cui la popolazione, fomentata dai liberali, accusò i Borbone di aver generato e diffuso la malattia; lo portò altresì, a una contromisura decisiva quale fu lo spostamento della sede della Provincia da Siracusa a Noto, col Real Decreto del 23 agosto 1837[1].
   Falaride ordinava quasi sei secoli prima venisse Cristo, Del Carretto anni 1837 dopo Cristo; costui si operava intanto da lasciare i presenti e i futuri in dubbio se più il colera, o egli nel 1837 in Sicilia facesse guasto…[2]
   Le numerose sentenze di esecuzioni capitali, emesse dalle Corti marziali brboniche, riempirono di odio gli abitanti dei distretti della Sicilia sud-orientale: 133 furono eseguite, 123 furono gli ergastoli, oltre a quelle che non ebbero seguito grazie alla fuga dei prigionieri.
   Posto che in generale in Sicilia la carboneria non ebbe molte “vendite” paragonabili alle altre parti della penisola, anche perché le classi aristocratiche non simpatizzarono con le idee democratiche repubblicane, al punto che la “Giovine Italia” si diffuse molto lentamente; comunque nel territorio ibleo, nel circondario di Comiso ci furono delle adesioni alle idee repubblicane già dal 1819, quando fu costituita la "Casmene Fidente": una setta mazziniana che si rese evidente nei moti del 1851, espressione del locale Comitato liberale segreto, il quale astutamente costituì la sua sede nel Convento dei cappuccini[3] e che tra i suoi adepti distinse, oltre padre Gaetano La China e Giombattista Linares, originario di Licata, che risiedette prima a Santa Croce Camerina e a Vittoria poi, anche il padre guardiano Fedele Cannata. Anche nella parte orientale, nonostante fosse sorretta dalla media borghesia, più aperta ai commerci e maggiormente sofferente ai vincoli dettati dagli aristocratici devoti al re, la distanza con le masse, soprattutto di contadini, impedì una più ampia adesione ai principi liberali richiesti da Mazzini e per la verità non furono molti a sapere di un certo Garibaldi!
   Il percorso giunse fino al 16 maggio 1860, giornata in cui ebbe inizio anche l’azione di solidarietà iblea verso le “donne” e gli uomini capeggiati dall'uomo che fu definito “l'eroe dei due mondi”, contro il giogo alimentato da Francesco II. Un focoso proclama, alla notizia che i garibaldini stettero marciando verso Palermo, partì da Noto all'indirizzo di tutti i comuni del capoluogo:
Fratelli cittadini della provincia, il vessillo della libertà sventola nella città di Noto, inaugurato da un intero popolo fra le grida di Viva l'annessione! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele! È questa la più solenne dichiarazione di volere concorrere al voto di tutta la penisola, oggi redenta della schiavitù dello straniero. Queste sono le grida che ci rendono forti, unendoci a ventiquattro milioni di popolo italiano che ci ha precessi coll'esempio di mirabile virtù e unanimità di sentire. Fratelli, l'unione fa forti i deboli e l'unione può consolidare la massima libertà. Sorgete quindi ed associatevi all'opera nostra, scuotete il gioco che tutt'ora vi opprime, e sappiate che non c'è libertà senza rispetto alla vita, alla proprietà dei cittadini, e sia unanime il grido di: Viva l'annessione! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele!
Noto 16 maggio 1860»[4].
   Con l’arrivo dei Mille in Sicilia, anche i vari paesi dei Monti Iblei aderirono ai moti di liberazione, fornendo alle file dei garibaldini molti picciotti provenienti soprattutto dai circondari di Scicli, Vittoria – che ospitò Nino Bixio – e Ragusa.
   Il Comitato liberale segreto del distretto di Modica capeggiato da Francesco Giardina, non appena avuta la notizia proveniente dal telegrafo di Malta, dello sbarco a Marsala, il 17 maggio fece alzare il tricolore di fronte al sagrato della chiesa madre di San Pietro, assieme all’acclamazione della popolazione che accorse numerosa. Complice l'apporto dei liberali dell'abate Giuseppe De Leva, già sospeso a divinis e bollato dalla chiesa come “incorreggibile antiborbonico”. Cortei nelle strade mossero alle grida di Viva Garibaldi! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emanuele! Cortei e raduni simili si ebbero anche nel circondario di Scicli, dietro il coordinamento di Agostino Beneventano del locale Comitato liberale segreto, con manifestazioni che coinvolsero anche il comune di Santa Croce Camerina e il villaggio costiero di Scoglitti e che si resero utili anche per raccogliere uomini da inviare tra le fila garibaldine. Il ruolo di Scicli, assieme a Modica, fu fondamentale in quanto le due città rappresentarono il diretto collegamento con l’isola di Malta, ove si trovavano gli esuli siciliani sfuggiti alle persecuzioni borboniche. Il Circondario di Scicli, riunito in assemblea, proclamò la propria annessione al Regno di Sardegna con un provvedimento che fu poi ratificato dal Consiglio civico. Per la strada che portò a Lentini circa 200 volontari partirono in aiuto a Garibaldi.
   Il 16 maggio stesso, il patriota Luciano Nicastro innalzò il tricolore sul campanile della chiesa di San Giovanni, dopo aver fatto insorgere i ragusani; così, negli stessi giorni e nelle settimane seguenti, insorsero quasi tutti i paesi della provincia di Noto, ad esclusione del distretto di Siracusa e del circondario di Augusta, presidiati dall'esercito borbonico; manifestazioni per l’annessione si ebbero il 20 maggio anche nei circondari di Chiaramonte e Comiso.
   Memori dell'esperienza del 1848, quando il timore dell'anarchia e dei saccheggi contribuì alla reazione borbonica, fu fatta del mantenimento dell'ordine pubblico la principale preoccupazione. A Modica si formarono dei comitati che radunarono in tutto 52 cittadini e uno di questi, il Comitato di guerra, fu presieduto proprio dal Giardina. Nel circondario di Ragusa ricoprì la carica di delegato per il mantenimento dell’ordine lo stesso Nicastro: Istituivasi una guardia municipale, attivavasi la compagnia d'armi, va ad organizzarsi la Guardia Nazionale, e una squadra onde partire a un bisogno per i punti dove la causa della Patria lo chiama. Misure di tutto rigore non escluse la fucilazione si sono adottate per gli attentati contro le persone e le proprietà, affidandone l'esecuzione alla Guardia Nazionale che deve garentire la pubblica sicurezza perché l'ordine è puro cardine della libertà.
   In questo periodo l’opera di Francesco Giardina fu molto incisiva, soprattutto per i contatti che egli riuscì a tenere con i patrioti mandati in esilio a Malta, rimasti nell’isola dopo la grazia concessa da Francesco II col decreto del 16 giugno 1859, che consentì a 137 prigionieri politici di rientrare in Sicilia, ma che comunque avrebbero potuto sperare in un rientro successivamente, a seguito di una supplica al re. Nel Comitato rivoluzionario degli esuli maltesi c’era anche Matteo Reali, sfuggito alla condanna a morte, esule da Noto dal 1849, che tenne una nutrita corrispondenza col modicano e che insieme al presidente del Comitato, il modenese Nicola Fabrizi e con Pasquale Calvi, provvidero a favorire i rifornimenti di armi da far arrivare ai patrioti siciliani[5].
   Il contributo del circondario di Spaccaforno valse l'adesione di 12 picciotti alla causa, che partirono volontari dopo i contatti avuti tra Giardina e Fabrizi. Più ardimentose le gesta del conte Vincenzo Statella, che da questa piccola cittadina – oggi Ispica – raggiunse Garibaldi e nell'epica battaglia di Milazzo del 20 luglio, per la conquista del cinquecentesco castello, salvando la vita, facendogli da scudo col suo corpo e portando in salvo Garibaldi da un'improvvisa carica della cavalleria borbonica che lo stava travolgendo, ne fu nominato dal generale stesso, suo “aiutante di campo”.
   Mentre Garibaldi combatté l’esercito borbonico a Milazzo, alcuni reparti delle truppe garibaldine transitarono nel territorio ibleo, provenienti da Niscemi e da Caltagirone, passarono dalle città di Biscari e Vittoria, giungendo anche a Comiso e Santa Croce Camerina, per raggiungere Siracusa e proseguire per Catania: una delle tre colonne predisposte da Garibaldi per la conquista dell’Isola, capeggiate dal colonnello genovese Gerolamo Bixio. Episodi di “polizia militare” pare che siano avvenuti a Santa Croce Camerina, per l’uccisione di marinai di un bastimento svedesi ed inoltre documentarono il passaggio di Nino Bixio da Vittoria, delle lettere spedite all’amata Adelaide Parodi, in data 24 luglio, in cui si descrisse l’itinerario percorso e una marcia tranquilla della sua colonna, che mosse il 24 giugno da Palermo. A Biscari – oggi Acate – le truppe passarono il 22 luglio, per giungere a Vittoria dove dimorò Bixio con i suoi ufficiali inferiori, tra i quali il giovane Menotti Garibaldi, fino al 24, in cui alle prime luci dell’alba mosse la colonna e fu attuata la deviazione dal percorso principale, a seguito di segnalazioni fatte dai vittoriesi, riguardo alla presenza di reparti borbonici nei territori tra Modica e Siracusa, che costrinsero la marcia verso Palagonia, richiamando le truppe da Comiso e Santa Croce Camerina.
   Dal circondario di Lentini si unirono altri volontari a quelli provenienti da Modica, Vizzini, Scordia, Scicli, Palazzolo Acreide, Sortino e Noto, che si attestarono nei pressi del ponte di Primosole sul fiume Simeto, per chiudere la via verso Siracusa ed intervenire da sud su Catania. Dopo qualche giorno, i volontari, su ordini impartiti dagli ufficiali di Garibaldi, si riconcentrarono a Carlentini, marciarono su Scordia e quindi entrarono in Catania il 5 giugno.




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[1] Solo dopo l’unificazione d’Italia, nel 1865, la sede della Provincia tornò in Siracusa.
[2] Cfr. Ruggiero Settimo e la Sicilia. Documenti della insurrezione siciliana del 1848.
[3] Santa Maria delle Grazie, fondata nel 1614 da padre Pietro Palazzo con la Chiesa del Gesù, aperta anch’essa nel 1616, rappresentarono i massimi luoghi di spiritualità e ascetismo comisano. In ragusa.news.com, /Comiso, Santa Maria delle Grazie fu rifugio per i rivoluzionari, 2/8/2010.
[4] Tratto dal sito ufficiale della Regione Siciliana ‒150° Anniversario della Spedizione dei Mille.
[5] G. La Rosa, Modica nel 1860. Il contributo della città all’impresa Garibaldina, Contea di Modica, Ebook 2004.

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