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28 marzo 2017

Dalle trazzere allo sviluppo territoriale nella Sicilia del Settecento

La devastante scossa di terremoto dell’11 gennaio 1693 creò uno spartiacque per quello che fu la ricostruzione nel Val di Noto e nella Sicilia intera. Con la fase di ricostruzione urbana, nell'area che da Sortino – colpita dall'epicentro – si espanse nella Piana di Catania e nel siracusano, iniziò un periodo di cambiamenti demografici e del paesaggio, che si avviò verso il XVIII secolo ormai alle porte e che riguardò l’intera isola.
   L’apertura dei mercati agricoli creò una nuova fase della distribuzione feudale, tale da ampliare le
colture oltre le cinte urbane e insediare nuovi terreni da sottoporre a nuove piantagioni, tra cui cotone, lino, canapa, assieme a un aumento di allevamenti ovini per la produzione di orbace.

   I traffici marittimi con l'Inghilterra richiesero una sempre maggiore quantità di merci locali, molto ricercate anche nei vari paesi del Vecchio Continente. I porti di Palermo, Messina e Trapani, furono confermati quali approdi finalizzati al commercio con l’estero, per l’esportazione maggiormente di grano, vino, seta prodotta dalle piante di gelsi della Sicilia sudorientale, nonché di frutta secca e di sale trapanese.
   Agli inizi del XVIII secolo, a seguito dei Trattati di Utrecht stipulati l’11 aprile 1713, conseguenza del termine della Guerra di successione nella Spagna di Carlo II, che ebbe inizio nel 1702, a Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, fu attribuita la Sicilia il 13 luglio 1713 – grazie alla quale il ducato dei Savoia poté trasformarsi in regno – che tenne fino al 2 luglio 1718, lasciandola nelle mani del viceré, conte Annibale Maffei, dal momento della sua dipartita dall'isola nel 1714, al quale seguì Giovanni Francesco di Bette marchese di Lede nel 1718 e Niccolò Pignatelli duca di Monteleone nel 1719.
   Precedentemente regnata dal 1282 dagli spagnoli, in Sicilia il periodo del regno savoiardo fu considerato traballante, poiché non molto amato dai nobili siciliani, fomentati dai reduci spagnoli, che poco gradirono le responsabilizzazioni in tema di pubblica sicurezza e di pagamento dei propri debiti nei confronti della corona: maggiormente da parte dei baroni, i quali furono obbligati, altresì, a rispondere dei delitti commessi nelle loro terre. A prescindere, Vittorio Amedeo II, incoronato nella notte della vigilia di Natale del 1713 nella cattedrale di Palermo, amò molto la Sicilia, mantenendo per i siciliani una predilezione particolare, per quello che poté viverli dall’11 ottobre 1713 al 5 settembre 1714: intervallo in cui la Sicilia riebbe nel suo suolo un sovrano, assente dal 1535 dopo il soggiorno di Carlo V, dal 20 agosto al 3 novembre. Nel 1734, comunque, la Sicilia ritornò ai Borbone di Spagna, dopo un periodo di dominazione austriaca.
   Nella fase del regno savoiardo dal 22 settembre 1713 – data in cui assunse il titolo di re della Sicilia – al 20 febbraio 1720, in cui la Sicilia fu scambiata con la Sardegna, fu predisposta nel 1714 una soddisfacente carta geografica della Sicilia, da Antonino Daidone, un appassionato architetto di Calascibetta. Infatti, l'architetto Daidone realizzò una migliore rappresentazione dei contorni dell’isola, con l'indicazione degli approdi e delle insenature, dei caricatori e dei porti, ma, ancor più interessante, seppe evidenziare alcuni itinerari principali dell’interno, oltre ai conosciuti percorsi postali e rappresentare dei centri più significativi della Sicilia di inizio Settecento. La stampa fu realizzata con le suddivisioni amministrative, militari e religiose, ovvero con i confini del Val di Mazzara, del Val Demone e del Val di Noto, le diocesi, le sergenzie e i litorali, a differenza di quanto fu realizzato da Sipione Basta ingegnere del regno nel 1702, che curò molto bene i contorni, ma mancarono le indicazioni delle strade, nella sua mappa. Il Daidone diede, quindi, alla stampa un taglio maggiormente politico-economico, seppur con dei miglioramenti geografici, a confronto alle precedenti cartografie a stampa, che risalirono al 1545 con Giacomo Gastaldi. In quel periodo, seguirono altre due importanti stampe, una sempre nel 1714 e un'altra nel 1717 a cura di Guillaume Delisle, che furono considerate importanti rappresentazioni scientifiche dell'isola, basate sulle osservazioni astronomiche dell'Accadémie Royale des Sciences di Parigi, le quali seppero integrare le informazioni già note del Basta e del Daidone[1].
 Seguì ancora, nel 1721 la carta più dettagliata dell’austriaco Samuel von Schmettau, che fu presa in considerazione anche dallo stato maggiore imperiale, per via dei suoi riferimenti, in linea di massima corrispondenti al territorio. A raggiera da Palermo furono rappresentate, per raggiungere altrettanti luoghi conosciuti, le nove trazzère, oltre alle strade costiere di congiungimento degli apici dei tre Valli, da Capo Lilibeo a Capo Passero a Capo Peloro per ritornare in Palermo.
Quindi, iniziando a verificare gli itinerari partendo dal Capoluogo, notiamo primo fra tutti un tracciato diagonale che traversa la Sicilia da Ovest ad Est collegante Palermo (da dove parte sdoppiato) con Noto moderna passando per Villafrati, Roccapalumba, Vallelunga, il sito dell’antica città di Mitistrato ad Est di Marianopoli, Caltanissetta, Pietraperzia, Caltagirone, Grammichele, Buccheri, Palazzolo Acreide, Noto antica e Noto moderna. A Caltagirone la strada si biforca dirigendosi a Lentini attraversando Militello in Val di Catania. A Palazzolo Acreide l’Itinerario si biforca ulteriormente puntando su Siracusa ed attraversando Canicattini Bagni. Questo percorso segue, con discreta aderenza, un più antico itinerario greco riutilizzato in epoca romana come secondario, successivamente ripreso in epoca bizantina ed arabo-normanna quando Palermo divenne la capitale della Sicilia e Noto uno dei Capovalli. Lungo il suo percorso si trovano 5 ponti oltre quello dell’Ammiraglio, subito ad Est di Palermo.
Quasi parallelo al precedente itinerario, ma decisamente spostato più a Nord, si pone in evidenza quello cosiddetto Palermo a Messina (in realtà poi, per necessità, puntante decisamente verso Catania) che rasenta il mare sino a poco dopo Termini Imerese (esattamente ad Himera). Tra Palermo ed Himera si contano 7 ponti. Da quì l’itinerario si divide divenendo Palermo a Messina per la marina che va più o meno costeggiando la costa passando da Cefalù, Caronia, Sant’Agata di Militello, Barcellona Pozzo di Gotto, Divieto e concludendo, dopo aver puntato sull’interno per Gesso, a Messina. Quest’itinerario ricalca quasi pedissequamente quello romano Messana – Tyndaris - Panormo-Drepanis - Lilibeo, salvo alcune varianti locali come nell’attraversamento Patti-Naso. E molti dei ponti (non meno di 18 tra Himera e Messina) che ricadono su questa strada sono proprio di costruzione romana più o meno mantenuti in efficienza nei secoli. Il secondo braccio della strada prosegue invece verso l’interno divenendo Palermo-Messina per le montagne, passando da Caltavuturo per poi puntare su Calascibetta ed Enna, e da qui proseguire rasente il fiume Dittaino sino a superare il fiume Simeto con la Giarretta dei Monaci e puntando quindi verso Catania. Tra Alimena e Calascibetta l’itinerario ha una biforcazione dirigendosi verso lo spartiacque dei Nebrodi passando per Leonforte, Agira, Nissoria, Regalbuto, Centuripe, Paternò, Motta Sant’Anastasia e Misterbianco, ricalcando con discreta approssimazione un più antico itinerario romano. Il primo di questi segue anch'esso, in maniera pedissequa, salvo brevi varianti, la prima parte del percorso romano Termini Imeresensis - Henna, e presenta almeno 4 ponti. Lo stesso proseguiva lungo la dorsale dei monti secondo l’itinerario romano Henna-Agurio-Ameselum-Centuripa-Aetna-Hybla Galeatis-Catina. La variante della valle del Dittaino sembra, invece,più un percorso arabo che altro.
Sempre sullo stesso direttiva, subito dopo Caltavuturo, la strada devia puntando su Polizzi Generosa, le Petralie, Gangi, Nicosia, Cerami, Troina, Bronte, Randazzo e, seguendo il fiume Alcantara, si dirige su Taormina per ricongiungersi alla strada Messina-Catania. E’, questo, un itinerario che sembra tutto normanno in alternativa alla Palermo-Messina per la marina (vedi sopra) spesso impraticabile e, dapprima, essenziale via di penetrazione per colpire il cuore del regno arabo da parte dei normanni; successivamente diviene il collegamento tra Messina e Troina, prima roccaforte normanna in Sicilia. Questa strada presenta più diverticoli di collegamento ma, soprattutto, un’importante deviazione che da Tusa o da Motta d’Affermo, punta verso Troina e la precedente Palermo-Messina per le montagne, passando per Mistretta e Capizzi. Tra Himera e Taormina si contano 11 ponti mentre nella deviazione da Troina per Tusa se ne contano 6. Mistretta è circondata da ben 5 ponti.
Gli altri itinerari significativi sono quelli che, dipartendesi da Messina, collegavano la stessa con Palermo proseguendo con Trapani e Marsala, e con Catania e Siracusa. Anch’essi seguono in linea di massima l’itinerario delle vie romane Pompea (Messina-Siracusa) e Valeria (Messina-Palermo-Marsala) ma con modifiche, anche significative, rispetto a queste. Interessante a tal proposito l’indicazione di Via antica ed anche Dromo (via in greco) dato al tratto della strada costiera tra Brolo, Capo d’Orlando ed il ponte di Zappulla.
Difficile, se non a tratti, ritrovare nelle zone appena citate il tracciato degli itinerari romani cercati da secoli dagli studiosi, specie nel tratto Palermo-Agrigento e tra Siracusa ed Agrigento, così come altrettanto difficile diviene tentare di ritrovare e leggere anche i percorsi riportati da Idrisi. Più riconoscibile appare il tratto Agrigento-Marsala, dotato di 7 ponti, mentre vanno in risalto itinerari minori quali Palermo-Mazara (5 ponti) e Palermo-Campobello di Mazara (4 ponti) legati a periodi storici più recenti. Dall'interno si diramano, invece, le grandi trazzere frumentarie come la Enna-Licata, la Caltanissetta-Palma di Montechiaro, la Mussomeli-Palma di Montechiaro o la Corleone-Sciacca che, dalla parte opposta, si congiunge a Palermo.
Intorno a Messina e su tutta la costa tirrenica ed jonica insistono un gran numero di Regie Trazzere, ma tali precisi tracciamenti sono, probabilmente, da mettere in relazione all'assedio di Villafranca ed ad una presenza prolungata dello Schmettau sul luogo. Da qui, al contrario, non si diparte nessuna strada che colleghi in maniera decisa la costa tirrenica con l’interno dell’Isola, segno evidente di scarsissime comunicazioni tra questi luoghi piuttosto impervi per loro natura. Nella parte orientale Caltagirone è al centro di alcuni collegamenti, ma è Siracusa quella su cui convergono vari itinerari, anche se non i più importanti. La parte a Sud di Noto ed il ragusano mostrano diversi percorsi secondari anche se sono decisamente staccati dai percorsi principali. Da segnalare infine Lentini, su cui convergono almeno 4 itinerari e Caltanissetta che, con Enna, si segnala come snodo di almeno 5 strade.
Interessante evidenziare l’itinerario Licata-Palermo, che in larga parte ricalca l’VIII Itinerarium Antoninum Item ab Agrigento Lilybeo nel tratto Agrigentum-Panormo dotato di almeno 5 ponti[2].
   La parola “trazzera” – un percorso naturale – per alcuni esperti di linguistica può risalire al latino tractus, tracciato, per altri al francese antico drecière, via dritta, cammino e drecier, drizzare; antichi tracciati, pertanto, percorsi dai siculi e dai sicani, che poi divennero vie dei greci e dei romani, come la via Valeria che congiunse Messina a Lilibeo, la via Pompeia per Siracusa, la via Selenuntina che da Siracusa giunse a Lilibeo concludendo il percorso costiero, per essere ridotti a sentieri adatti alla transumanza delle greggi, percorsi dai viaggiatori nei secoli successivi: «Una sorta di elementi immutabili del terreno che abbiano sempre costituito i vasi comunicanti fra i vari insediamenti»[3].
   La Sicilia, in effetti, nel periodo del regno savoiardo di Vittorio Amedeo, si presentò in un momento di rimescolanza demografica, anche a seguito della pratica già esistente dal XVII secolo della licentia populandi – concessa dietro pagamento alla corona da 100 a 400 onze – ai baroni locali, che avvenne sopratutto nell'interno dell’isola, e in una conseguente trasformazione agricola.
   Anche a seguito degli spostamenti dei nuclei di abitanti nei vari villaggi e nelle città siciliane, nel 1714 il re volle un censimento dei fuochi e delle anime presenti in Sicilia, che al termine dei riveli svolti dai funzionari delineò uno spostamento delle cifre dall'ultimo censimento del 1681, evidenziando notevoli diminuzioni di popolazioni dei villaggi, per via dell’urbanesimo legato all'eccessivo sfruttamento delle masse contadine e anche per onerosi patti colonici: ai contratti di mezzadria e colonato andarono a sostituirsi contratti di gabella o grande affittanza e alla coltura intensiva si avviò la coltura estensiva. Di conseguenza si ebbe la necessità di ripopolare le campagne, legata all'esigenza di moltiplicare la popolazione rurale, in alcuni casi allontanatasi anche a causa del formarsi di aree malsane acquitrinose dovute agli straripamenti dei fiumi. Alla fine dei conteggi, nei riveli di Vittorio Amedeo risultarono in Sicilia 250.473 fuochi e 983.163 anime, esclusi gli ecclesiastici e la città di Palermo, come da prassi.
   La realizzazione di nuovi insediamenti vassalli concentrò la produzione agricola, che si sviluppò anche oltre il cerchio dei centri urbani, penetrando all'interno, a seguito della realizzazione dei nuovi insediamenti stabili, maggiormente nella parte sudest, la cui diversificazione di piantumazioni portò maggiori economie nel territorio catanese e siracusano. Di fatto, questi territori maggiormente serviti da acqua proveniente da sorgenti, richiesero un interesse più grande verso le infrastrutture, al fine di permettere una migliore esportazione dei prodotti della terra; questo a differenza dei latifondi nisseni e agrigentini, formati da terreni argillosi sprovvisti di acqua, che videro un uso intensivo dei terreni a semina cerealicola e che dovettero attendere l’ultimo ventennio preunitario per un ampliamento della rete stradale. Del resto, per l’amministrazione pubblica l’edificazione di nuove strade fu considerata, per molto tempo, uno spreco di denaro pubblico, per un servizio non richiesto dalla popolazione.
   Lo stato delle strade siciliane del 1714 è di seguito desumibile, come ci ha illustrato lo studioso generale Alberico Lo Faso di Serradifalco; furono, quindi, già dai primi giorni di gennaio, disposti lavori di manutenzione per le direttrici verso Trapani e verso Termini, a seguito della scelta di Vittorio Amedeo di visitare la città di Messina via terra, anziché salpare da Palermo per raggiungere il porto di Messina e proseguire a visitare altre città sempre via mare:
... e perchè volle il Re vedere una parte del Regno, fece questo viaggio per terra. La commodità del mare fa che in Sicilia pochissimi viaggian per terra, e per conseguenza le strade non sono troppo praticabili, e manca il paese di quelle commodità che sono necessarie ai viandanti. Pertanto si spedirono precedentemente uomini per il Regno ad aggiustar le strade[4].
   In Palermo la popolazione raggiunse i 145.000 abitanti, agli inizi del XVIII secolo e a seguito dell’incremento demografico a metà secolo salì già a 165.000, per superare le 200.000 anime a fine Settecento, portandosi al secondo posto dopo Napoli, quali città più popolose della penisola. Messina, seconda città siciliana, s’intensificò in maniera inferiore anche a causa della peste del 1743 e del terremoto del 1783; seguirono Catania, Siracusa, Trapani, nonché Marsala, il cui Vallo fece segnare al censimento savoiardo la più alta densità di popolazione dell’isola.
   Questo incremento demografico incise principalmente sulle produzioni cerealicole, col conseguente aumento dei prezzi del grano, al punto di obbligare i latifondisti a intensificare maggiormente lo sfruttamento dei terreni incolti del bosco, ampliatesi a causa della lenta conquista della pastorizia. Si moltiplicarono le pratiche del debbio, cosiddetto “taglia e brucia”, nei terreni boschivi, per favorire le semine dei cereali quali anche granturco e segale, perfino nei terreni più impervi. Altri terreni feudali in quell'epoca furono utilizzati per ampliare i vigneti, il cui prodotto fu molto richiesto dai mercati nazionali ed esteri; per questa ragione sorsero piccole e medie aziende contadine produttrici di ottimi vini nell'isola.
   Nell'arco dell'intero periodo, sicuramente, l’utilizzo di mulattiere dal tragitto breve, per raggiungere l’interno dell’isola, oltre quei pochi fiumi “navigabili”, a confronto dell’utilizzo delle antiche vie romane, fu dettato dalla necessità di ovviare a un grande problema sociale: il brigantaggio. Diffusosi già dalla metà del XVI secolo, Vittorio Amedeo cercò di porre un freno, oltre alle pene maggiori nei confronti dei briganti, anche impedendo ai commerci il maggiore utilizzo delle strade costiere poiché più aggredite, lasciando alle trazzere il passaggio di animali per transumanza dai monti al mare e per il ritorno ai villaggi interni.
   Sotto il regno di Carlo di Borbone Farnese, incoronato rex utriusque Siciliae il 3 luglio 1735 nella cattedrale di Palermo, rappresentante di princìpi illuminati, la situazione siciliana infrastrutturale fu ancora in uno stato di necessità di interventi. Fautore dello “spagnolismo” invitò anche la nobiltà siciliana a moderare il lusso e inoltre, come il sovrano savoiardo, incise sulla giurisdizione nei feudi di proprietà baronale, ridimensionandone il potere, a tutela dei contadini. A protezione delle merci locali, inoltre, applicò dei dazi per le merci straniere al fine di promuovere il commercio interno e marittimo.
Palazzo Cosentino - Ragusa Ibla
   Non di meno, in questo secolo XVIII, sulla scia di quanto già intrapreso nel Seicento, ci fu un incremento nella costruzione delle dimore dell’alta nobiltà siciliana, che assoggettò oltre all’obbligo di rango di avere il palazzo nella capitale, con decorazioni e richiami al barocco spagnolo, la “moda” di possedere la villa nella tenuta, che divenne ben presto la residenza di villeggiatura. Le rimanenti residenze urbane del baronaggio parlamentare si collocarono negli altri principali centri urbani dell’isola: principalmente, a Messina e anche Catania. Per quanto riguarda le costruzioni feudali, fino a metà secolo, subirono l’influenza dell’assenza d’interesse di commerci interni e, pertanto, le dimore feudali furono, in alcuni casi, fortificate con alte mura di cinta e col portale quale unico ingresso, contro eventuali ingerenze esterne; a cui, inoltre, non vollero che affluissero strade di comunicazione.
   I traffici interni si svolsero con le merci trasportate a dorso di mulo, i quali trasportarono per lungo tempo anche i viaggiatori e, a seguito di forti lamentele per il disagio “atavico”, con apposita delibera del Parlamento siciliano il 5 aprile 1778 fu autorizzata la costruzione di una rete stradale principale, per favorire la movimentazione di uomini e merci verso Palermo e i vari porti siciliani: Palermo-Girgenti con una diramazione verso il caricatore di Siculiana; Palermo-Sciacca; Palermo-Mazzara con diramazione per il caricatore di Castellammare e per quello di Piazza d’Armi di Trapani; Palermo-Messina per le montagne con diramazione per il caricatore di Tusa e uno per Cefalù; Cefalù-Messina; Palermo-Calatagirone con diramazione per i caricatori di Licata, Terranova e per quello del Contado di Modica; Calatgirone-Noto con un ramo per Piazza d’Armi di Siracusa e Augusta; Palermo-Catania. Di fatto, nell'area del messinese, del catanese e del siracusano non fu realizzato neanche un miglio.
   Fautore dell’agevolazione dei commerci interni, invece, fu il viceré Domenico Caracciolo, che promosse il pensiero liberista nello sviluppo dell’agricoltura siciliana di fine Settecento, soprattutto, dopo la penuria di grano che colpì i traffici dell’isola negli anni 1784/85, sulla base del principio: Salus populi suprema lex. Fu promotore del principio della formazione naturale dei prezzi, a tutela dei siciliani, contro l’oppressione dei ricchi, a favore di una equa distribuzione della ricchezza, oltre che dei tributi.
A seguito di quanto disposto dalla Consulta del Maestro Segreto, in data 1 febbraio 1788, le strade di collegamento tra centri abitati venivano considerate Regie Trazzere, mentre erano classificate vie pubbliche quelle che portavano ai mulini, ai paratori o ai fiumi[5]. 
   Le Regie Trazzere, come istituite, furono soprattutto un abuso della corona nei confronti dei feudatari, che si videro sottrarre dal proprio latifondo il terreno posto a servitù di passaggio, divenuto strada pubblica. Disposizioni in tal senso furono emanate, semplicemente, per indebolire i feudatari nella loro arroganza, con la scusa di agevolare lo sviluppo della scarsa pastorizia e al fine di esercitare e avallare sulle trazzere il pubblico demanio.
   In quest’epoca di assolutismo predominante nel Vecchio Continente, un secolo tendente alle uniformità, frutto dell'astrattismo protestante e antitesi della tradizione autentica, si riporta una nota legata alla tradizione antecedente, radicata sul rispetto delle legislazioni locali.
Come prova di quanto si è detto è significativo il rispetto che ebbero i sovrani tradizionali delle Spagne per le legislazioni e per i sistemi politici autonomi della Sardegna e della Sicilia in contrasto con gli attacchi mediante i quali li attaccano ed alla fine li annientano i sovrani di Torino ed i Borboni di Napoli. [...] I Siciliani erano, come dice Piero Gritti, "accarezzati come elemento antico di questa Corona". Infatti la politica dei monarchi siciliani del XVI e XVII secolo, cioè quella tradizionale ispanica anteriore all'invasione deleteria dell'astrattismo europeo, si fondava sul rispetto delle realtà autonome di ciascuno dei popoli costituenti la gigantesca monarchia.Ecco come Francesco Di Stefano la descrive nella sua Storia della Sicilia dal secolo XI al XIX: "Tutti i parlamentari, all'avvento di ogni nuovo sovrano, ricordarono che, se dovere dei sudditi era di prestare giuramento di fedeltà, dovere del sovrano era quello di confermare i privilegi concessi dal predecessore e di concederne nuovi. Anche il viceré, all'atto di insediamento, doveva giurare e rispettare la costituzione, i privilegi ed i capitoli del regno ed in particolare quelli di Palermo e Messina, a seconda delle città in cui avveniva la cerimonia. La deputazione del regno, esecutrice delle deliberazioni parlamentari, vegliava sul rispetto dei capitoli e dei privilegi, aveva la facoltà di chiedere l'annullamento delle leggi che li modificassero, di riscuotere ed amministrare i tributi. Con questi organi e con il Sacro regio consiglio, di nuova creazione, costituito da Siciliani, che era pur esso organo di garanzia, perché ad esso il viceré doveva sottoporre le prammatiche da pubblicare, il regno continuò a possedere strumenti validi a difendere l'autonomia[6].
   Ciò nonostante, il Parlamento siciliano, dominato dalla classe nobiliare del ramo feudale, per lungo periodo non dimostrò alcuna intenzione di aprire alle innovazioni, tra cui quelle infrastrutturali, considerate una perdita di potere nei confronti della massa contadina.
Alla fine del secolo, nel 1791 il marchese Tommaso Gargallo polemizzò con la Deputazione del regno per la costruzione di nuove strade nelle direttrici: Licata, Scicli, Noto; Noto, Siracusa; Siracusa, Augusta, Lentini, Catania, che si sarebbero dovute collegare con la contea di Modica, oltre che con Spaccaforno, Avola, Melilli e altri centri del Vallo[7].
  La situazione della popolazione in Sicilia – con un’estensione territoriale di 25.711 kmq – risultò modificata a seguito del censimento svolto dai parroci nel 1798, in quanto la densità di popolazione in Sicilia crebbe con questi risultati: Val di Mazzara da 25 a 74 abitanti per kmq; Val di Noto da 31 a 59 abitanti per kmq; Val Demone da 35 a 55 abitanti per kmq[8].
   Purtroppo, nonostante i buoni propositi, la situazione infrastrutturale della Sicilia di fine XVIII secolo non ebbe grandi innovazioni per quanto riguardò il profilo viario dell'intera isola, come poterono annotare, anche, i viaggiatori stranieri, numerosi nella Magna Grecia dalla metà del Settecento.




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[1] P. Militello, La Sicilia nella cartografia a stampa della prima metà del Settecento, in «Agorà», n. 23-24, a. 2005, pp. 16-21. Per approfondimenti P. Militello, L'isola delle carte. Cartografia della Sicilia in età moderna, 2004, Franco Angeli, Milano.
[2] L. Santagati, Viabilità e topografia della Sicilia antica, vol. I, Regione Siciliana, 2006, pp. 33-35.
[3] Chi ponesse mano allo studio della viabilità della Sicilia antica... arriverebbe alla singolare conclusione che quasi tutte le vecchie trazzere non erano in ultima analisi che le pessime grandi strade dell’antichità greca e romana, e talune forse rimontano ancira più addietro. P. Orsi, Notizie degli scavi di antichità, 1907, p. 750.
[4] Biblioteca Reale Torino - Cerimoniale d’Angrogna.
[5] S. Fontana, Il mito delle Regie Trazzere di Sicilia, in «Rassegna d Diritto Civile», XXII, I (2001), pp. 63-80.
[6] F. E. De Tejada, La Monarquia tradicional, Madrid, Biblioteca del Pensamiento Actual, 1954, Controcorrente Edizioni, Napoli, 2001, pp.26-27.
[7] S. Vinciguerra, Territoriali e viabilità in Sicilia fra Sette e Ottocento, in «Meridiana», n. 36, Materiali 1999, Dic. 1999, p. 98.
[8] Per le notizie sui censimenti, E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del sette e dell’ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1965, pp. 33-48.


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Dalle trazzere allo sviluppo territoriale nella Sicilia del Settecento di G. La Rosa
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